Una spaghettata di cromosomi

INTERVISTA A… Andrea Papale!

I cromosomi sono piccole strutture fatte da DNA e proteine presenti all’interno delle cellule. Per formare un cromosoma, DNA e proteine non si arrotolano a caso ma seguono regole ben precise, molte delle quali ancora sconosciute. Anche se molti dei meccanismi biologici alla base di questo ripiegamento sono ancora misteriosi, quello che gli scienziati sanno è che, se le regole non vengono rispettate, si possono avere delle malattie.

Studiare l’arrotolamento del DNA è perciò molto importante, come sa bene Andrea Papale, lo scienziato protagonista di oggi. Attualmente Andrea lavora a Parigi ma ha iniziato a occuparsi di cromosomi qualche anno fa, alla SISSA di Trieste.

Hai mai visto un cromosoma?

In genere i cromosomi non si riescono a osservare facilmente. Sono talmente piccoli, sottili e nascosti all’interno del nucleo delle cellule che di certo non si vedono a occhio nudo e spesso nemmeno con un microscopio. Esistono però particolari momenti della vita di una cellula umana in cui i cromosomi si organizzano e si compattano fino a formare delle strutture a forma di X. In questi momenti e con un microscopio molto potente, gli scienziati riescono finalmente a vederli.

Immagine: Zappys Technology Solutions

Come avviene la riorganizzazione del DNA in cromosoma?

“Non è ancora molto chiaro come, dal DNA, si riesca a formare la struttura a X”, ci svela Andrea. “Il DNA è una lunga catena simile a uno spaghetto che di solito sta srotolata e sparsa nel nucleo. Ma non come in una pentola in cui gli spaghetti sono tutti disordinati e incastrati tra loro! Ogni spaghetto occupa uno spazio ben preciso e separato dagli altri e il suo ripiegamento non è casuale ma segue regole ben definite”. Grazie a queste regole, zone di DNA molto lontane tra loro in uno spaghetto disteso si trovano vicine quando lo spaghetto è ripiegato e ciò permette alla cellula di funzionare in modo corretto.

Come si studiano queste regole di base?

Andrea usa la matematica e il computer per studiare i meccanismi con cui il DNA e le proteine si arrotolano a formare i cromosomi.

“Considero i cromosomi come strutture formate da decine di migliaia di palline, collegate tra loro da molle” spiega Andrea. “Poi al computer cerco di far muovere tutte queste palline insieme per capire come si comportano e come interagiscono l’una con l’altra. L’obiettivo è vedere quale regola, quale meccanismo di ripiegamento è quello che porta alla formazione di una struttura a X simile a quella che vediamo nella realtà”.

Perché la struttura dei cromosomi è così importante?

I cromosomi contengono informazioni preziosissime che funzionano come la ricetta di una torta, ovvero dicono alle cellule come funzionare e replicarsi.
Ogni essere vivente ha la sua ricetta unica, il suo unico libretto di istruzioni: anche tu!

Se nella ricetta c’è qualcosa che non va, qualche errore, le cellule non sanno più come comportarsi e si possono manifestare delle malattie.


Nome: Andrea Papale
Anni: 30
Sono nato a: Varese
Adesso vivo a: Parigi
Lavoro: all’École normale supérieure di Parigi
Alla SISSA ho fatto: un dottorato in fisica e chimica dei sistemi biologici

Mi piace: guardare serie tv, leggere, nuotare, cucinare
Il mio sogno nel cassetto è: che il mio lavoro porti un contributo concreto e reale alla ricerca scientifica
Mi piace essere uno scienziato perché: fare questo lavoro mi diverte molto, mi piace usare il computer e risolvere problemi di cui non si conosce la soluzione.


Marie Curie e i segreti atomici svelati

Marie Curie fu la prima a studiare la radioattività e a isolare due nuovi elementi chimici, prima sconosciuti. Tutto molto bello, ma cos’è la radioattività? La prima definizione l’ha data il fisico Ernest Rutherford, che la definì come una disgregazione spontanea di atomi. La radioattività ha portato alla scoperta della struttura dell’atomo e all’energia nucleare: una vera rivoluzione per il mondo scientifico!

Nata nel 1867 in quella che oggi si chiama Polonia, era la più piccola di 5 fratelli ed era molto brava a scuola. In quegli stessi anni, un chimico russo – Dmitri Mendeleev – aveva creato la tavola periodica, mettendo in ordine gli elementi conosciuti. Nessuno avrebbe pensato che la piccola Marie avrebbe contribuito a riempirla, ma accadde davvero!

A 24 anni si è trasferita in Francia, dove la scienza era all’avanguardia e dove sembrava tutto diverso. Dopo la laurea in fisica alla Sorbona, vinse anche una borsa di studio per proseguire gli studi. Incontrò Pierre Curie, suo futuro marito, e fu una delle poche persone al mondo in grado di capire davvero di cosa si occupasse. Dopo aver avuto una bimba, Irène, iniziarono a occuparsi della radioattività: all’inizio studiarono uranio e torio, ma poi scoprirono due nuovi elementi, il polonio, così chiamato per ricordare la terra di origine della scienziata, e il radio, da radium che vuol dire raggio in latino.

Dopo Irène nacque anche Eve. Marito e moglie iniziarono però ad avere problemi di salute perché la radioattività è molto pericolosa se non si usano protezioni adeguate. Purtroppo, Pierre rimase vittima di un’incidente con una carrozza trainata da cavalli e Marie continuò i suoi esperimenti da sola.

Marie Curie è stata anche amica di Albert Einstein, considerato il “più grande scienziato della storia”, ed era convinta che la scienza dovesse essere al servizio di tutti. Proprio per questo non volle brevettare il processo di estrazione del radio, ma condivise le istruzioni gratis. A quel tempo non sapeva che, grazie ai suoi studi, avrebbero costruito la bomba atomica.

I segreti degli atomi e della vita della famiglia Curie sono descritti nel libro “Marie Curie e i segreti atomici svelati” scritto da Luca Novelli, volumetto della serie “Lampi di genio” pubblicata da Editoriale Scienza. Alla fine della storia troverai anche un mini-dizionario di termini “radioattivi”.

COSE CHE NON SAI DI VOLER SAPERE:

Marie Curie è stata la prima donna a ricevere un Premio Nobel per la fisica e l’unica ad averne vinti due! Infatti, qualche anno dopo il primo per la fisica, ne ha vinto anche uno per la chimica. Inoltre, anche la figlia Irène e suo marito vinsero insieme il Premio Nobel per la chimica. Proprio una famiglia da Nobel!

Come facciamo a riconoscere gli oggetti?

Intervista a… MATTEO MANZATI!

Osserva questa fotografia: sai dire di che oggetto si tratta?

Lo riconosci anche da questa angolazione?

Che animale c’è in questa foto?

E qui, tutto al buio?

Nelle prime due immagini è raffigurato un libro. Nelle ultime due c’è un gatto. Sei riuscito a riconoscerli? È stato facile o hai dovuto pensarci su?

Se non hai avuto grandi difficoltà e hai trovato la risposta in un batter d’occhio, il motivo sta in un meccanismo molto particolare presente nel nostro cervello che si chiama riconoscimento invariante.

Per saperne di più su come funziona il riconoscimento invariante, abbiamo chiesto aiuto a Matteo Manzati, scienziato della SISSA di Trieste che si occupa di neurobiologia.

Gli occhi del cervello

“Il riconoscimento invariante è la capacità del nostro cervello che ci permette di interpretare e rielaborare ciò che vediamo”, spiega Matteo, “e lo fa indipendentemente dal modo in cui le cose si presentano ai nostri occhi”.

Per esempio, ci fa riconoscere un libro anche se è storto, al buio o controsole; se lo vediamo di fronte ma anche se è di profilo, se è grande o piccolo; se si trova chiuso e sistemato in libreria oppure aperto sul divano, quando è da solo e quando è circondato da altri oggetti.

Insomma, con il riconoscimento invariante non è importante il contesto, la dimensione, l’orientamento o la luminosità delle cose che abbiamo davanti. Il nostro sistema visivo è comunque in grado di riconoscerle. E lo fa senza troppi sforzi.

In viaggio nel sistema nervoso

Ogni volta che vediamo un oggetto, gli stimoli ricevuti dai nostri occhi fanno un lungo percorso nel corpo fino ad arrivare nel cervello, dove l’immagine viene percepita in modo cosciente.

“In questo lungo percorso”, racconta Matteo, “quasi alla fine, dentro al cervello, c’è un particolare tipo di cellule, chiamate cellule complesse, che sembra essere coinvolto nel riconoscimento invariante” continua Matteo.

Le cellule complesse fanno parte di un tipo di cellule molto speciali presenti nel sistema nervoso: i neuroni. Il compito dei neuroni è ricevere le informazioni dall’ambiente esterno, trasmetterle all’interno del corpo e rielaborarle in una risposta.

La loro forma assomiglia un po’ agli alberi: c’è una parte centrale piatta che riceve i segnali, o gli impulsi, e una parte allungata simile ai rami che trasmette gli impulsi a un’altra cellula.

Una rete di informazioni

Tutti assieme, i neuroni formano una grande rete di informazioni che funziona come un circuito elettrico: al posto degli interruttori ci sono gli impulsi e al posto dei fili di metallo ci sono cellule fatte di acqua salata e grasso.

“Per studiare i neuroni in laboratorio ci sono tantissime tecniche”, precisa Matteo. “Quella che uso io è molto particolare e mi permette di analizzare le cellule una a una e capire che cosa succede in ciascuna di esse quando arriva lo stimolo dagli occhi. Questa tecnica ha un nome inglese e si chiama Patch Clamp”.

È come fare un puzzle

Il riconoscimento invariante è un processo molto complesso. Le informazioni che si ottengono grazie al Patch Clamp sono come il pezzo di un puzzle: solo unendolo a tanti altri pezzi, e quindi a tante altre informazioni ottenute da tecniche diverse, gli scienziati potranno costruire il quadro completo di come il nostro cervello è in grado di riconoscere gli oggetti.


Nome: Matteo Manzati
Anni: 26
Sono nato a: Brescia
Adesso vivo a: Trieste
Lavoro: alla SISSA dove sto facendo un dottorato in neurobiologia
Mi piace: leggere fumetti, fare speleologia urbana, nuotare
Il mio sogno nel cassetto è: fare un’escursione nei posti giganti degli Stati Uniti

Mi piace essere uno scienziato perché: mi dà la possibilità di studiare cose molto complicate per capire come funziona il mondo.


Non solo stelle: quali altri oggetti ci sono nell’Universo?

INTERVISTA A… Matteo Nurisso!

Vi siete mai fermati a guardare il cielo di notte?
E magari di fare a gara a chi conta più stelle?
Che poi, siete sicuri che quelle siano tutte ma proprio tutte stelle?

In effetti quei puntini luminosi non sono tutti stelle, possono essere pianeti, satelliti, asteroidi, galassie, … E non è finita qui: avete presente quello che a noi sembra spazio vuoto tra una stella e l’altra? Ecco, in realtà non è vuoto ma pieno di altre stelle, gas, polvere, materia e vari oggetti celesti che sono troppo piccoli o troppo lontani per essere visti a occhio nudo.

Gli scienziati che studiano gli oggetti presenti nell’Universo per cercare di capire come si formano e come funzionano si chiamano astrofisici. Matteo Nurisso è un astrofisico della SISSA che studia degli oggetti spaziali molto particolari, i buchi neri.

Un buco nero non è un vero proprio buco!

Non c’è un fondo, nei buchi neri. Perché in effetti non sono dei veri e proprio buchi.

Matteo ci spiega che “sono delle zone dello spazio che riescono ad attirare tutto ciò che c’è attorno a loro e a mangiarlo. Da qui l’idea di chiamarlo buco. E sono oggetti così potenti da catturare addirittura la luce che, se si avvicina troppo, viene imprigionata e non riesce più a scappare”. Infatti si chiamano neri proprio perché appaiono come enormi spazi bui.

Grandi o piccoli, ce n’è per tutti i gusti

Nell’Universo esistono buchi neri di varie dimensioni. Tra quelli particolarmente grossi ce ne sono alcuni che attirano e accumulano talmente tanta materia che a volte la sputano fuori sotto forma di getti potentissimi.

Immagine: IAC/G Perez Diaz

Questi getti sono così luminosi che all’inizio gli scienziati li avevano scambiati per stelle. “Immaginate di avere una torcia”, racconta Matteo, “e di puntare la lampadina verso di voi: se la luce è abbastanza forte, riesce a oscurare tutto quello che avete attorno e potreste addirittura non vedere più la torcia che l’ha prodotta ma solo un cerchio luminoso.

È successa la stessa cosa con i getti dei buchi neri, erano talmente luminosi da mascherare la loro provenienza ed essere confusi con le stelle. Per fortuna negli anni la tecnologia è migliorata e grazie a nuovi e sofisticati telescopi siamo riusciti a distinguere veri e propri fasci di luce. È stata anche una questione di fortuna, nel senso che alcuni di questi fasci di luce non erano proprio diretti verso di noi, ma erano un po’ inclinati e siamo riusciti a distinguerli”.

Getti affascinanti ma misteriosi

Gli astrofisici non sanno ancora come e perché si formano queste esplosioni. “Stiamo facendo delle ipotesi”, ci svela Matteo. “La cosa che ci interessa di più capire è come la materia che sta dentro al buco nero riesca ad accumulare così tanta energia da riuscire a spararla fuori e produrre questi getti.

In astrofisica non si smette mai di imparare: più studiamo l’Universo, più scopriamo cose nuove e più ci accorgiamo di quante ancora ce ne restano da capire”.


Nome: Matteo Nurisso
Anni: 28
Sono nato a: Susa (TO)
Adesso vivo a: Trieste
Lavoro: alla SISSA dove sto facendo un dottorato in astrofisica e cosmologia.

Mi piace: suonare il flauto traverso e un po’ la chitarra, faccio parte di un’associazione ambientalista.

Il mio sogno nel cassetto è: ricominciare a suonare in pubblico e realizzare un festival a tema ambiente.

Mi piace essere uno scienziato perché: si lavora assieme ad altre persone e quando si arriva a un risultato è merito di tutto il gruppo.


Millie Dresselhaus, la scienziata famosa come una star

Nasco nel 1930 a Brooklyn, un quartiere di New York, ma entrambi i miei genitori provengono dalla Polonia.

Mi chiamo Mildred, ma per tutti sono sempre stata Millie. Da piccola sono un prodigio in matematica e nelle materie scientifiche: dopo le scuole elementari vorrei frequentare una scuola per ragazzi portati per la scienza, ma l’iscrizione è aperta ai soli studenti maschi.

Scopro però che a Manhattan esiste una scuola per ragazze con doti speciali: l’Hunter College High School. La mia famiglia è povera, ma io vinco una borsa di studio e riesco ad accedere lo stesso. In breve tempo divento una delle migliori studentesse: “Millie pùò risolvere ogni equazione”, è scritto nell’annuario scolastico, “in matematica e scienza non è seconda a nessuno”.

Dopo il diploma proseguo i miei studi all’università. Vorrei diventare un’insegnante, ma Rosalyn Yalow – mia professoressa e futuro premio Nobel – mi fa capire che io sono nata per fare la scienziata.

Mi laureo in fisica al Radcliffe College – la sezione femminile dell’Università di Harvard, ai miei tempi aperta ai soli uomini – e nel 1958 mi specializzo all’Università di Chicago.

Nel 1960 inizio a lavorare per il MIT di Boston, uno dei più importanti centri di ricerca del mondo. Ci lavorano oltre mille persone, ma le donne sono solo due: io e una mia collega.

Resto al MIT per oltre cinquant’anni, nel corso dei quali conduco tantissimi studi sul carbonio, elemento chimico fondamentale, alla base della vita e presente in tanti oggetti molto diversi tra loro, dalle matite ai diamanti. Pubblico oltre 1700 articoli scientifici e le mie ricerche aprono la strada a tante applicazioni tecnologiche, per esempio gli smartphone. Vengo soprannominata “la regina del carbonio”.

Oltre alle mie ricerche sul carbonio, gestisco per anni un corso rivolto alle studentesse del MIT, nato per far aumentare la fiducia delle ragazze nelle proprie capacità. Nel 1990 divento la prima donna a ricevere la National Medal of Science, ottenuta per i miei meriti scientifici ma anche per il mio impegno nei confronti delle donne. Nel 2014, il presidente degli Stati Uniti Barack Obama mi conferisce la medaglia presidenziale della Libertà, uno dei riconoscimenti più importanti degli Stati Uniti.

Ah, sono la protagonista di una pubblicità del 2017 dove si immagina un mondo in cui noi scienziate siamo famose quanto le star della musica, del cinema e della tv. Pensa, in questo spot ragazze e ragazzi vogliono farsi i selfie con me! Non sarebbe male se il mondo descritto nel video diventasse realtà, non trovi?

Un mondo di infinite ripetizioni

Intervista a … URIEL LUVIANO!

Osserva l’immagina qui sotto. Noti qualche caratteristica particolare?

Se guardi con attenzione, il disegno parte da un unico motivo che si ripete identico in tutte le direzioni. E non importa quanto sia grande o quanto sia piccolo, la sua struttura rimane la stessa.
Queste caratteristiche sono tipiche di oggetti chiamati frattali.

Anche in natura esistono dei frattali, osserva la fotografia qui sotto.

In natura esistono anche altri tipi di sistemi, simili ai frattali ma molto più strani, nei quali se dilatiamo lo spazio o lo rimpiccioliamo tantissimo è possibile ritrovare gli stessi fenomeni. Sono sistemi regolati da leggi particolari, diverse da quelle che conosciamo e che gli scienziati come Uriel Luviano, fisico e protagonista dell’intervista di oggi, cercano di scoprire e definire.

Ma cos’è la fisica? La fisica è la scienza che studia i fenomeni naturali, cioè quegli eventi che possono essere descritti e misurati e per i quali si possono stabilire delle regole.

Un mondo diverso con regole diverse

“Nel mondo che ci circonda siamo abituati a vedere cose diverse in base alla diversa distanza a cui le guardiamo” spiega Uriel. Per esempio, quando proviamo ad attaccare una calamita al frigorifero, se siamo molto vicini sentiremo una grande forza di attrazione che richiama la calamita al frigo; se siamo lontani, non sentiremo nulla. Questo perché il fenomeno di attrazione è diverso a distanze diverse.

“Ci sono sistemi”, continua Uriel, “in cui i fenomeni funzionano in modo del tutto diverso perché rimangono gli stessi anche se le distanze vengono modificate a piacimento”.

I mattoni più piccoli dell’Universo

“Per studiare questi mondi un po’ strani”, sottolinea Uriel, “ci sono tante strade. Quella che uso io è una strada numerica, cioè basata sulla matematica, che si chiama teoria conforme. La teoria conforme studia le proprietà delle particelle, che sono i più piccoli mattoni di cui sono fatte tutte le cose”.

Uriel cerca di applicare la teoria conforme ai mondi strani fatti di ripetizioni infinite di uno stesso fenomeno.

Fantascienza matematica

“Da fisico, mi sento un po’ come gli scrittori di fantascienza”, sorride Uriel. “Nel senso che il nostro lavoro è prendere le regole che descrivono più o meno il nostro mondo e cercare di usarle per descrivere altri mondi, anche molto diversi dal nostro, per scoprire qualcosa di più di ciò che ci circonda”.

Come sottolinea Uriel, “non è un esercizio puramente teorico, perché queste teorie e gli strumenti che usiamo per studiarle possono essere utili per sfruttare al meglio nuove tecnologie come i superconduttori”.


Nome: Uriel Luviano
Anni: 26 anni
Sono nato a: Ensenada (Messico)
Adesso vivo a: Trieste
Sto lavorando: alla SISSA, dove sto facendo un dottorato in fisica delle particelle

Mi piace: la musica, andare in bicicletta, comunicare la scienza, il mare
Il mio sogno nel cassetto è: percorrere la ciclabile da Cadice ad Atene
Mi piace essere uno scienziato perché: mi dà l’opportunità di conoscere persone da tutto il mondo che hanno scelto il mio stesso mestiere.


Vera Rubin e la materia oscura

Nasco nel 1928 a Philadelphia, negli Stati Uniti.

Sin da bambina sono attratta dal cielo stellato. A 10 anni amo trascorrere ore col naso all’insù, affacciata dalla finestra della mia cameretta. “Vera”, mi dice la mamma, “non stare troppo a lungo con la testa fuori dalla finestra, ti verrà il raffreddore!”, ma io non l’ascolto.

Quello spettacolo meraviglioso accende la mia curiosità: quando ci sono piogge di meteoriti, quelle che chiamiamo stelle cadenti, resto sveglia per osservarle e poi segno le traiettorie su una mappa. Non ho alcun dubbio: da grande farò l’astronoma.

A 14 anni, con l’aiuto di papà, costruisco un telescopio artigianale applicando delle lenti a un tubo di cartone. In questo modo riesco a vedere meglio le stelle. Mi piace partecipare agli incontri degli appassionati di astronomia, gli astrofili cittadini, e leggere i libri di James Jeans, famoso astronomo e divulgatore.

Dopo il diploma studio al Vassar College e a Princeton, vicino a New York, e poi trovo lavoro alla Georgetown University, nei pressi di Washington. Nel 1965 incontro Kent Ford, un astronomo che ha costruito uno strumento molto sensibile e sofisticato grazie al quale è possibile studiare la rotazione di alcune galassie. Iniziamo da M31, la galassia di Andromeda, e scopriamo qualcosa di strano.

Vera Rubin e Kent Ford (col berretto bianco) nel 1965, durante una delle prime osservazioni insieme. Immagine presa da: Carnegie Institution, Department of Terrestrial Magnetism

Le stelle nella zona più esterna della galassia dovrebbero muoversi molto più lentamente rispetto a quelle interne, che percorrono un’orbita più stretta e vicina al centro. È quello che succede, per esempio, nel Sistema Solare: i pianeti più vicini al Sole, come Venere e Mercurio, ruotano più velocemente rispetto a quelli più distanti, per esempio Nettuno e Urano.

In M31, invece, così come nelle altre galassie analizzate dopo, la velocità delle stelle esterne è uguale a quella delle stelle interne. Un fenomeno così strano può essere spiegato solo immaginando una forza “speciale”, generata da qualcosa che non riusciamo a vedere: una materia invisibile che decidiamo di chiamare materia oscura, proprio perché non sappiamo com’è fatta.

Galassia M31, o galassia di Andromeda. L’immagine è presa da Wikimedia Commons.

Il 27 per cento dell’universo è costituito da materia oscura e il 68 per cento da qualcosa di ancora più misterioso, l’energia oscura. Se l’Universo fosse una torta, la materia ordinaria – quella di cui sono fatte tutte le cose che vediamo: pianeti, alberi, animali e anche noi stessi – sarebbe una fetta piccolissima!

In tanti pensano che per la mia scoperta avrei dovuto vincere il premio Nobel, ma a me basta sapere che, a distanza di tanti anni, gli astronomi continuino a usare i risultati delle mie ricerche. Credo che non esista onore più grande.

La fisica del miao – ali, zampe e code raccontano la scienza

Non è sempre facile capire la fisica, ma avete mai pensato di farvela spiegare dagli animali?

Loro utilizzano la fisica tutti i giorni per sopravvivere: chi per volare, chi per nuotare, chi per cacciare. Chi meglio di un gabbiano potrebbe spiegare il segreto del volo? E non solo del suo volo, anche quello degli aerei: il principio è lo stesso, che le ali siano fatte di piume o di ferro.

Lo stesso vale per i pesci, che possono farci capire come funziona la spinta di Archimede, cioè quel principio fisico per cui possono andare su e giù grazie alla loro vescica natatoria. Inoltre, le farfalle ci possono spiegare l’iridescenza, una parola che deriva dal greco e che significa arcobaleno. Ma cosa c’entra una farfalla con la fisica? C’entra eccome, perché le sue ali non hanno colore, ma quando vengono colpite dalla luce accade qualcosa di simile alle bolle di sapone, che quando sono illuminate dal Sole si riempiono di arcobaleni. Questo fenomeno è l’iridescenza.

E non finisce qui: il signor Ragno racconta delle sue tele e di che materiale sono fatte, il signor Pipistrello della sua super vista notturna basata sugli ultrasuoni e non sugli occhi, il signor Geco delle tecniche di esperto alpinista e il signor Serpente della sua incapacità di regolare la temperatura corporea.

Conoscerete anche il signor Squalo, che spiega l’effetto Magnus grazie a palline da golf e da tennis, e il signor Gerride, un insetto in grado di camminare sull’acqua! Ma c’è anche un’intervista a un gattone da divano, che spiega il momento angolare e la signora Tartaruga che è in grado di viaggiare per chilometri e tornare negli stessi posti grazie a una specie di sistema GPS incorporato, come se fosse il navigatore della macchina.

Alla fine di quasi tutti i capitoli ci sono dei piccoli esperimenti da fare per mettere in pratica, giocando, quello che è stato raccontato dai vari “professori”, siano essi quadrupedi, striscianti, pelosi, saltellanti o guizzanti. Un libro che contiene 11 interviste ad altrettanti animali: “La fisica del miao – ali, zampe e code raccontano la scienza”, pubblicato da Editoriale Scienza, è scritto da Monica Marelli e illustrato da Alberto Rebori.

 COSE CHE NON SAI DI VOLER SAPERE:

Anche delfini e focene utilizzano l’ecolocazione, che funziona bene anche in acqua. Per cacciare e orientarsi producono ultrasuoni che scandagliano l’ambiente e, percependo l’eco dei suoni che “rimbalzano” contro altri animali o oggetti, vedono quello che li circonda.